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Verona e il Futurismo

Marinetti, da uomo di teatro, evidentemente cercò di tastare il polso nei teatri di provincia prima di andare in scena sul grande palcoscenico parigino e forse fu solo per questo che Verona si trovò coinvolta fin dall’inizio con il futurismo. Dopo questo avvio un po’ occasionale il futurismo restò cosa estranea alla città fino alla vigilia della Grande Guerra quando due eventi , uno tragico ed uno abortito sul nascere collegarono nuovamente Verona a personaggi del movimento. Nell’ambito di quello che comunemente viene chiamato “primo futurismo “ Verona è ricordata principalmente per la tragica fine di Umberto Boccioni in località Sorte, episodio di grande risonanza ed importanza nella storia del movimento. L’altra occasione per cui gli storici del futurismo citano Verona è il progetto, non realizzato, della nuova sede centrale della Cassa di Risparmio curato, assieme ad altri, da Antonio Sant’Elia, personalità visionaria e tragica di quel movimento che ancora oggi, chi si interessa di queste cose, lo considera punta di diamante dell’architettura futurista. Visionario perché nei suoi disegni ci fa vedere costruzioni che si lanciano verso l’alto e forse di impossibile realizzazione per quelle che erano le tecniche dell’epoca. Figura tragica perché morì colpito da una pallottola in fronte in una trincea del Friuli, ancora giovane e spavaldo come lo si vede nelle poche fotografie che lo ritraggono. Il “secondo futurismo”, quello tra le due guerre, vide il formarsi in molte città di gruppi futuristi ed anche Verona ebbe, a partire dagli anni ’30, un suo gruppo intitolato a Boccioni.. Il primo futurismo , quello “eroico”, e Verona si può dire che si incrociarono ma senza mai manifestare interesse e tanto meno provare a volersi bene. In occasione della rappresentazione, al Teatro Ristori, di alcune brevi sintesi teatrali ideate da Marinetti, Settimelli e Corra, il pubblico non dimostrò grande apprezzamento, anzi, tutto finì con lanci di ortaggi. Anche “L’Arena” non fu da meno nel riferire, in cronaca, l’avvenimento il 15 febbraio del 1915. Dopo un avvio “comprensivo” nei confronti di questi scalmanati capitati in città l’articolista si lasciò andare e continuò: “Il pubblico borghese non può accettare un simile giuoco per parecchie ragioni: per ignoranza, per spirito tradizionalistico, ma soprattutto perché non sente ciò che sul palcoscenico si va fulmineamente svolgendo”. Aggiunse poi “Il teatro è nato, è vissuto, ha trionfato, vivrà per il popolo, per l’anima collettiva del popolo; ha vinto quando ha saputo riprodurlo con genialità e profondità. Ora i futuristi ci presentano delle esercitazioni dinamiche che rispondono a concezioni astratte, cerebrali” e concluse augurandosi che . “…tale spettacolo cessi dal chiamarsi teatro, si porti nei music-hall o nei circhi, viva anche altrove, fra le marionette ad esempio…”.
L’area era occupata da fabbricati che all’epoca non rivestivano grande pregio dal punto di vista edilizio a differenza di oggi in cui si tende ad essere più sensibili all’aspetto storico e paesaggistico.
Il bando di concorso dava delle precise informazioni sulle caratteristiche della costruzione. Tra i requisiti era espressamente richiesto che , la nuova costruzione non dovesse creare dissonanze con gli edifici adiacenti ed inserirsi armonicamente nell’ambiente urbano senza alterarne la fisionomia. Requisiti già difficili da rispettare per chi un anno dopo lancerà un manifesto in cui si dice che “L'architettura come arte delle forme degli edifici secondo criteri prestabiliti è finita”. Ma se il progettare avveniristiche città future lanciate verso il cielo era piacevole fantasticheria, progettare cose meno ardite permetteva di realizzare concretamente qualcosa e, forse anche di risolvere qualche problema quotidian0. Al concorso, nazionale, parteciparono 47 progetti di architetti, o meglio studi di architettura, in cui l’architetto era la figura di riferimento ma dietro il quale lavorava una squadra di collaboratori. Tra i progetti presentati c’era anche quello dello studio dell’architetto Arrigo Cantoni di Milano del cui gruppo facevano parte anche Antonio Sant’Elia e il pittore Leonardo Dudreville. Si trattava di un gruppo di giovani, Cantoni aveva 36 anni, Sant’Elia 25 e Dudreville 28. Gruppo di giovani ma non di improvvisati allo sbaraglio. Cantoni aveva già partecipato al concorso per il progetto della Stazione Centrale di Milano nel 1906, progetto in cui Sant’Elia, assieme a Giovanni Possamai, aveva curato gli ornamenti scultorei. Progetto, anche questo, che poi venne assegnato ad un altro studio. Il gruppo Cantoni, per il concorso della Cassa di Risparmio di Verona, presentò un progetto dal motto “Costruire” in cui Sant’Elia partecipava per i prospetti e le sezioni mentre Dudreville curava le visioni prospettiche acquarellate. Il progetto si classificò tra i cinque finalisti a cui il committente chiese di riformulare il progetto in modo più aderente ai requisiti contenuti nel bando. Anche lo studio Cantoni ripresentò il proprio progetto con delle modifiche ma la Cassa di Risparmio proclamò vincitore il progetto “Can Grande” dell’architetto Milani. Il gruppo Cantoni &C. si piazzò al terzo posto. La decisione della commissione non fu condivisa “né dalla critica né dal pubblico” che erano meglio disposti verso il progetto “Costruire” di Cantoni e “Rinnovarsi o morire” dello studio del veronese Fagiuoli e Greppi.[i]
La collaborazione al progetto Cantoni di Sant’Elia, potrebbe anche essere considerata come il segnale di un suo allontanamento dalle dirompenti utopie futuriste. In realtà il progetto era ben distante dalle coraggiose, visionarie, costruzioni che proprio in quel periodo formavano la serie di disegni de “La città futura”. Serie di fantastiche costruzioni per l’esposizione “Tendenze” organizzata dalla Triennale di Milano e che ,di fatto, lo faranno assurgere a massimo rappresentante dell’architettura nel pantheon futurista.. I disegni di Sant’Elia per il progetto furono donati dalla Cassa di Risparmio, nel 1962, al Comune di Como ed attualmente fanno parte della collezione della locale pinacoteca civica. Ulteriore dimostrazione, assieme alla dispersione delle opere di Boccioni, della scarso feeling tra la città e il futurismo.

Luciano Tumiet.

[i] www.antoniosantelia.org