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Mimi e pantomimi nell’antica Roma

A TEATRO CON GLI ANTICHI ROMANI
Conosciamo tutti la battutaccia di Giovenale (vissuto nella seconda metà del I secolo d.C. e noto per la sua satira pungente) all’indirizzo della ‘degenerata folla dei figli di Remo’ suoi contemporanei: ‘questo popolo non ha bisogno d’altro al mondo che panem et circenses’, come dire mangiare e divertirsi. Una verità storica confermata quarant’anni dopo da Frontone (scrittore ed oratore II secolo d.C.) con la tranquillità del saggio di fronte all’evidenza: ‘populum romanum duabus praecipue rebus, annona et spectaculis, teneri’ constatando che le maggiori, se non uniche, aspirazioni della massa si riducevano ad alimentarsi e divertirsi. Costantemente alla ricerca del consenso i Cesari si preoccupavano di offrire gratuitamente al popolo cibo e divertimento tramite distribuzioni mensili di pane e organizzando spettacoli che potesse distrarlo. Gli spettacoli offerti erano vari e diversificati: commedie e tragedie nei teatri, giochi cruenti negli anfiteatri, corse nel circo, naumachie.
Nel calendario romano, già ricco di giorni festivi legati allo scorrere dei mesi: ‘le Idi, le Calende e le None’ si vennero ad aggiungere i ‘Ludi romani’ iniziati nel 366 a.C., i ‘Ludi plebei’, i ‘Ludi Apollinares, Ceriales, Megalenses, Florales, i ludi Victoriae Caesaris, e Fortunae reducis’, questi ultimi inaugurati da Augusto, arrivando ad avere due giorni di ferie per ogni giorno di lavoro. Alla base delle festività romane si trova sempre un motivo religioso, vecchie solennità che i romani amavano celebrare, ma delle quali avevano perso il senso e la ragione. E questo succede anche oggigiorno, con le Sagre dei nostri paesi che, nate in origine come celebrazioni in onore della Vergine o di Santi, a cui chiedere aiuto e protezione per il raccolto, si sono trasformate nelle feste di paese per promuovere il prodotto ottenuto dai campi, dimenticando l’originario significato devozionale.
Nel mondo romano antico, i rituali degli antenati, richiedevano spesso un sacrificio animale per calmare la divinità che brandisce la falce. Molti di questi rituali si trasformarono in giochi celebrativi della potenza imperiale. Anche i combattimenti fra gladiatori, da sacrificio rituale sulla tomba di morti, divenne ufficialmente gioco nel 105 a.C., e definito ‘munus’, ossia ‘dono, onore dovuto agli Dei Mani’. Gli spettacoli degli anfiteatri, che attiravano la maggioranza delle persone, costituivano in un certo senso l’armatura su cui si reggeva il regime imperiale alimentando un sentimento di condivisione delle emozioni, dei timori e delle gioie specie quando l’imperatore era presente ai giochi. Avevano anche funzione di barriera alla rivoluzione: uomo che sbadiglia è pronto per la rivolta, si diceva, e quindi, per quella grande massa di persone che spesso era disoccupata, lo spettacolo occupava il loro tempo, le loro passioni, deviando sui loro bassi istinti potenziali aneliti di rivolta. L’interesse del popolo romano per il teatro, non era così diffuso come quello per l’anfiteatro o per il circo, basta osservare la diversa capienza dei luoghi destinati a queste rappresentazioni: i 250.000 posti del Circo massimo, a fronte dei 50.000 del Colosseo e dei 15.000 circa del Teatro di Marcello. In ogni caso pur essendo quella per il teatro una passione più contenuta rispetto alle corse del Circo, il potere centrale cercò di soddisfarla costruendo comunque teatri in pietra, in sostituzione di quelli in legno, in tutte le Province dell’Impero.
Anche Verona, città voluta da Cesare, perché datata 49 a.C., ebbe il suo Teatro realizzato nell’ultimo ventennio del I secolo a.C., in età imperiale, sotto Ottaviano Augusto. Egli incoraggiò la costruzione dei teatri, fortemente convinto come era della funzione politica degli stessi e del fatto che in essi si rispecchiava la struttura sociale cittadina e risaldava il legame con il potere centrale, esaltando con statue celebrative il prestigio di chi governava. Il teatro Veronese occupava una posizione prestigiosa ed elevata sopra l’intreccio dei cardini e decumani che si stendevano ai suoi piedi. Il teatro con i suoi splendidi marmi, inserito nello scenario della collina, dava lustro alla città e si presentava al visitatore, che da sud raggiungeva il fiume, come un superbo coronamento celebrativo della grandezza imperiale.
Ma il diffondersi nell’impero dei teatri in pietra, permanenti, e grandiosi, segnò anche l’inizio del declino della loro importanza, quasi fossero divenuti incompatibili con i gusti delle masse. Le ultime tragedie composte per essere rappresentate furono il Thieste di Vario (tratta da Euripide) e la Medea di Ovidio, che non vanno oltre il regno di Augusto. Già dal tempo di Nerone I pochi autori che ancora si ostinavano a comporre opere drammatiche, si accontentavano di leggerle negli ‘auditoria’, davanti a gruppi ristretti di letterati come loro, cosa che fece anche Seneca con le sue tragedie.
Al grande pubblico non rimase quindi che l’antico repertorio. Nei grandi spazi all’aria aperta, nella confusione e nel brusio della folla, il pubblico non era più in grado di seguire un delicato intrigo in versi, a meno che non lo conoscesse già, perché lo aveva già visto, o perché il prologo gli rinfrescava la memoria grazie anche a quei segni evidenti e immutabili che erano le maschere, tragiche o comiche, di colore bruno per il personaggio maschile e bianco per quello femminile, o il colore dell’abito, che dava l’idea del tipo di personaggio rappresentato e chiariva l’azione e la condizione sociale: le vesti bianche rappresentavano l’anziano, le colorate i giovani, le gialle le cortigiane, la porpora le ricche matrone, il rosso indicava il popolano, una corta tunica gli schiavi, una clamide i soldati ecc.
In età antica il testo delle tragedie era diviso in dialoghi, recitativi e canti e già in epoca repubblicana alcuni cambiamenti, anticipavano la sua involuzione. Il coro fu spostato da l’orchestra alla scena, sperando di dare più forza all’azione fino a diventare, durante l’impero, un tutt’uno di azione e coro. I testi furono impietosamente ridotti al punto che rimasero in vita solo gli intervalli musicali, i ‘cantica’, e l’azione si concentrò nella mimica di un solo uomo sulla scena che accentrava su di sé i diversi ruoli. Il suo abile gesticolare e l’intonazione patetica, scuotevano il pubblico dalla sua apatia facendolo vibrare di comuni emozioni. Era il pantomimo, il re della tragedia, attore terribilmente abile nel rappresentare tutte le tipologie e situazioni umane, che con la sua fantasia ricreava una seconda natura. Fu fra i preziosi marmi degli scenari imperiali che la tragedia romana, ereditata dal teatro greco, lentamente divenne un ricordo.
Al grande pubblico non rimase quindi che l’antico repertorio. Nei grandi spazi all’aria aperta, nella confusione e nel brusio della folla, il pubblico non era più in grado di seguire un delicato intrigo in versi, a meno che non lo conoscesse già, perché lo aveva già visto, o perché il prologo gli rinfrescava la memoria grazie anche a quei segni evidenti e immutabili che erano le maschere, tragiche o comiche, di colore bruno per il personaggio maschile e bianco per quello femminile, o il colore dell’abito, che dava l’idea del tipo di personaggio rappresentato e chiariva l’azione e la condizione sociale: le vesti bianche rappresentavano l’anziano, le colorate i giovani, le gialle le cortigiane, la porpora le ricche matrone, il rosso indicava il popolano, una corta tunica gli schiavi, una clamide i soldati ecc.
Grande fu la fama di cui godette nella città eterna, durante il regno di Augusto, il pantomimo Pilade ed altrettanto grandi furono le polemiche che lo riguardarono. In realtà questi personaggi diventavano miti e divi a tal punto da indurre non solo le masse ad una idolatria contagiosa, ma persino l’imperatrice Domitia ne fu contagiata al punto di cadere nelle braccia del Pantomimo Paris. Nel pantomimo, tranne la voce tutto parlava: la testa, le spalle, le ginocchia, e soprattutto le mani che sapevano abilmente tradurre, l’orrore, la paura, la gioia, la tristezza, l’abbandono con uno straordinario potere di imitazione che sostituisce la parola. Ben presto, questi personaggi, diverranno i despoti del palcoscenico, alterando le regole secondo le loro capacità e tenderanno non più a toccare i cuori ed i loro sentimenti ma a far leva su drammi dell’orrore, libidine ed erotismo, per infiammare i sensi di un pubblico divenuto ormai grossolano.
I testi più richiesti diventano la Niobe distrutta dal dolore fra i suoi figli massacrati oppure gli amori colpevoli di Didone ed Enea o di Giasone e Medea. Il pantomimo ebbe grande successo anche a Verona; il più noto si chiamava Marco Settimio Aurelio Agrippa, un liberto di Caracalla. Per la sua grande abilità fu premiato con gli ‘ornamenta decurionalia’, poté cioè fregiarsi delle insegne e prerogative degli appartenenti al Consiglio Municipale. Fu anche a Leptis Magna, in Libia, dove gli fu eretta una statua sulla cui base una iscrizione lo celebrava come ‘primo pantomimo del suo tempo’.
Se il pantomimo era stato il re della tragedia, il mimo lo fu della commedia. Anche questo genere di rappresentazione, purtroppo, decadde pur se meno velocemente della tragedia. Nel secondo secolo della nostra era si andava ancora ad applaudire Plauto e Terenzio, più come omaggio alla tradizione che per il piacere dello spettacolo. Ma non vi fu rigenerazione e ben presto tutta l’azione della commedia si concentrò nella figura del mimo, che già calcava le scene nel I° secolo a.C. e che i romani continuarono a riproporre alle platee anche in epoca imperiale. Il mimo rappresentava il genere e l’azione. Si trattava di una farsa, che poteva essere drammatica o buffa, e svolgeva quasi sempre temi tratti dalla vita reale. Nella commedia del mimo non ci sono convenzioni, non si porta una maschera e si vestono gli abiti del quotidiano. Gli argomenti sono presi da situazioni, vere, concrete, con una predilezione per il volgare ed il grossolano. Una delle opere più rappresentate a partire dal 30 fino al 200 d.C. fu il Laureolus, di Catullo, dove si dimostrava che i briganti, con i buoni governi vengono puniti e quindi che l’ultima parola spetta sempre all’autorità.
In un primo tempo, i mimi diedero il meglio di sé elevando la commedia alla dignità della migliore letteratura. Erano come Molière: degli autori che rappresentavano sulla scena le proprie opere. Col tempo i testi si accorciarono, i mimi imperiali adattarono le scene ed il recitato al momento e all’umore del pubblico: rapimenti, scene di nudo integrale, da far arrossire Marziale, lotte e scazzottate condite da parolacce, schiaffi e botte fino a ferirsi realmente. Se il Laureolus di Catullo tenne la scena così a lungo, fu per la ferocia del protagonista: ladrone incendiario e tagliagole, del quale si arrivò a rappresentare una vera esecuzione a morte, all’epoca di Domiziano, sostituendo all’ultimo, l’attore con un vero condannato a morte che moriva sulla scena sotto torture che nulla avevano di immaginario Il mimo ha espulso dalla scena romana l’arte e l’umanità assieme, ha toccato il fondo di una perversione apprezzata da quelle masse di popolo che invece di sentirsi nauseati, godevano, perché da troppo tempo avevano svilito i loro sentimenti sui gradini degli anfiteatri.
Anche a Verona, in età imperiale, il ruolo del mimo era molto apprezzato. In questo ruolo era consentito recitare anche alle donne, mentre in altri generi teatrali i ruoli femminili erano impersonati da maschi. Il teatro di Verona non fu più utilizzato per gli spettacoli a causa di un incendio che lo distrusse e che riuscì a fondere anche le tubature in piombo situate sotto il palcoscenico. Anche la sua posizione, esterna al fiume, non protetta da incursioni straniere contribuì a determinare la fine del suo utilizzo come luogo di divertimento. Dopo la prima invasione, quella degli Alamanni, verso la fine del III secolo, il teatro divenne luogo di sepolture, essendo cessata la funzione primaria ed essendo luogo di proprietà pubblica esterno alla città.

Romana Caloi