Allora, di che cosa parla questo La fiammata? E come parla? Cominciamo dal come, visto che, fin dall’incipit, colpisce non tanto un contenuto, quanto una “forma”, ossia la lentezza quasi incantata con cui viene descritto il modo in cui un personaggio osserva, da un interno, attraverso un angolo di finestra, il passaggio di figure all’esterno..”.
Su quest’ultimo lavoro e sul passaggio dalla poesia alla prosa è stata pubblicata su www.ildialogo.org la recensione “Quando un poeta scrive un romanzo” a firma Franco Casati.
E’ uscito il romanzo postumo di Arnaldo Ederle ‘La fiammata’, a pochi giorni dalla sua morte (avvenuta il 2 maggio a Verona), edito da Bonaccorso, con prefazione di Giulio Galetto. Il poeta veronese, con più di mezzo secolo di attività alle spalle, ha voluto cimentarsi con la prosa del romanzo, suscitando curiosità e aspettative nei suoi confronti, anche se in anni passati aveva già pubblicato dei racconti in prosa. Leggendo le pagine di questo lungo romanzo ho avuto conferma di quanto avevo ipotizzato, considerando che un poeta non può uscire più di tanto dalla propria pelle, e cioè che Ederle avrebbe optato per una linea di narrazione paradigmatica, ossia affidata a contenuti più astratti e allusivi che concreti, senza un consistente intreccio, a una osservazione attenta di una realtà simbolica più che concreta (il deambulare dei due protagonisti nel centro storico di Roma, fra le vecchie strade e gli storici caffè), a uno scavo interiore dei personaggi, osservati nelle piccole azioni quotidiane e nelle usuali scelte di vita, con uno stile narrativo funzionale ai contenuti. Bene si esprime, a questo proposito, nella sua introduzione Giulio Galetto:” …la narrazione è essenzialmente registrazione lenta e quasi ossessivamente iterata di gesti, atti, rare parole di trita quotidianità, capiamo che il ‘come’ del racconto non è casuale, ma è in funzione del ‘che cosa’ del racconto stesso.”
Come si vede, un lavoro incentrato più sulla scrittura che sulla narrazione. L’autore non si preoccupa di accattivarsi l’attenzione del lettore, resta nell’animo dei suoi personaggi. La narrazione procede su due piani paralleli che poi si incontrano. C’è un io che parla in prima persona, ed è la voce dell’intellettuale, membro della commissione scientifica di uno ‘Studio letterario’, il cui deposito di libri è stato incendiato da una mano ignota, con tutte le conseguenze che ciò comporta sul piano storico-culturale. Per la descrizione delle sensazioni e dei pensieri di questo primo protagonista Ederle si affida principalmente alla tecnica del ‘flusso di coscienza’ di Joyceiana memoria. Scopriamo, non a caso, che egli ama i poeti provenzali e i romanzi di Dostoevskji, come lo stesso Ederle. Ma, alla fine, anche la realtà della sua vita si svolge fra l’abitazione e il deambulare per il centro storico di Roma, fra i suoi caffè, avendo spesso come meta una visita allo ‘Studio letterario’, della cui segretaria egli è invaghito. Anche il secondo protagonista non ha nome, viene chiamato ‘l’uomo’ , una figura di estrazione proletaria, e su di lui la narrazione procede in terza persona. Qui Arnaldo Ederle dimostra di avere fatto propria la lezione del Nouveau Roman, ovverossia quella dell’E’cole du regard, di Alain Robbe Grillet, di Jean Butor e di altri autori francesi, con l’osservazione minuta e quasi ossessiva della realtà; unitamente a quella del minimalismo di Raymond Carver, che punta alla descrizione di situazioni ben definite, di realtà chiuse o circoscritte, senza prospettive di osmosi liberatorie.
Alla fine le vicende dei due protagonisti, quello di estrazione proletaria e l’intellettuale, si amalgamano, essendo entrambe circoscritte nel recinto di un modesto vissuto. In realtà, protagonisti veri della narrazione sono la quotidianità e il deambulare per le strade del centro di Roma. Ed è forse qui che si può cogliere qualche afflato poetico. Il ‘flusso di coscienza’ si attiva nelle riflessioni dell’io che connotano l’intellettuale, mentre ‘l’uomo’ (con una fisionomia facciale alla Lombroso), è il simbolo di una realtà prosaica senza sbocchi. Le descrizioni dei pensieri e dei gesti sono spesso ripetitive per tutti e due i protagonisti. Entrambi coltivano una relazione extra-coniugale, ma quella dell’io risulta non a caso solo vagheggiata, mentre quella dell’uomo è connotata da una materiale realtà. Alla fine le loro strade si incontrano, facendo affiorare una trama che si patina di giallo, anche se ‘La fiammata’ non rientra pienamente in questo genere.
Vorrei, alla fine, ricordare che il tema dell’incendio di un deposito di libri si ispira a un fatto di cronaca realmente accaduto, anni fa, a Verona, e che tanto fece parlare e discutere.